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Domande e certezze di un ventenne in Erasmus

Domande e certezze di un ventenne in Erasmus

Tramonto a Etretat

Fabrizio ha 21 anni, è al terzo anno di #università  e ha scelto di studiare filosofia “per essere in mezzo alla vita, ai pensieri, alle discussioni e ai dibattiti, per ascoltare e parlare”. Da qualche tempo studia all’estero…

Fabrizio, ti definisci studente o studente-lavoratore?
“Per prima cosa sono in #Erasmus  da un mese e mezzo. Studiare filosofia, come altre materie, richiede passione, impegno e stimoli. A Brandizzo, dove vivo, questo non sempre mi riesce bene. Tornato a casa dall’università, in famiglia e con gli amici, Platone e Cartesio sembrano scomparire. È un dato di fatto, ho bisogno di essere immerso nelle cose, essere trascinato da qualcuno, essere spinto a rispondere. L’ambiente universitario torinese è stimolante, ma c’è sempre il rischio di diventare una semplice macchina per esami e perdere per strada il fascino della materia studiata.
Ho sempre pensato a me stesso come un buono studente e lo studio mi è riuscito in genere facile, piacevole quasi. Quante ore passate a studiare, fare compiti, ripetere ad alta voce da solo… Mi sembra di aver passato tutta la vita a studiare, tanto che oggi, a 21 anni, non so ancora in realtà cosa sia un vero lavoro. Le mie esperienze extra-accademiche non sono infatti molto ampie. Certo, ho avuto molte belle esperienze, ma sono poche quelle in cui ho avuto vere responsabilità. L’attività in oratorio e parrocchia, ad esempio, non è mai decollata, perché, appunto, non ho forse trovato gli input necessari, non ho trovato quell’ambiente stimolante che mi spingesse ad essere vero organizzatore ed animatore. Le prime vere responsabilità sono arrivate quindi in un campo ancora molto legato alla scuola, cioè le ripetizioni. Ho iniziato ormai da 3 anni e ho seguito molti ragazzi, dalle elementari alle superiori, con una frequenza più o meno stabile. Aiutare e spiegare non sono certo la stessa cosa che studiare per conto proprio: seguire un ragazzo implica uno sforzo, implica una certa passione e volontà. Non sempre è facile farsi capire e spesso si scopre di aver bisogno di tornare sui libri a rivedere un argomento. Questo primo approccio pseudo-lavorativo è stato molto utile, anche solo per l’organizzazione del proprio tempo, per il contatto con le famiglie e i ragazzi.
Parallelamente, da circa un anno e mezzo, ho iniziato a collaborare con il giornale settimanale «La Voce del Popolo». Ho iniziato per caso, convinto da un’amica che aveva avuto la notizia di un corso di giornalismo. Dopo qualche settimana lei non è più venuta, io collaboro ancora! Cercare un articolo da proporre, motivare la scelta, andare all’eventuale incontro, avere tutte le informazioni necessarie, chiamare e incontrare persone sconosciute: tutto ciò richiede una certa volontà e una certa capacità di organizzarsi che oggi, in parte, ancora cerco. Vedere un proprio articolo sulla carta stampata è una grande soddisfazione, ma non può essere un punto d’arrivo. Studente o studente-lavoratore? Soprattutto uno studente che si chiede se può e vuole fare del suo studio un lavoro e che allo stesso tempo si chiede cosa sia un lavoro!”.

Come mai la scelta di studiare all’estero? In questo primo periodo cosa hai notato di diverso dall’Italia? Scegli 3 aspetti negativi e altrettanti punti di forza
“Studiare all’estero rientrava in una di quelle sfide che da tempo avrei voluto impormi, un viaggio in un luogo sconosciuto, senza punti di riferimento. È stata una scelta forse impulsiva, un tentativo andato bene, tanto che quando a marzo ho saputo di essere stato accettato per 6 mesi all’università di Rouen, in Normandia, la mia prima reazione è stata di disappunto. Io, un epicureo, una persona tranquilla e abitudinaria, in Erasmus! Burocrazia, problemi con la lingua, gente sconosciuta: perché ho scelto tutto ciò? Messo davanti al risultato delle mie stesse azioni, ho deciso di accettare con spensieratezza, pronto ad affrontare i problemi. Dopo un mese e mezzo di soggiorno, non me ne sono pentito.
Perché la Francia, perché la Normandia e non la calda Spagna ad esempio? Forse perché ho studiato 5 anni francese al liceo e non volevo tradire questa lingua per il tanto gettonato spagnolo o per lo spigoloso tedesco.
Cosa ho capito della Francia finora? Devo dire innanzitutto che sono in un campus universitario in un piccolo paesino, Mont Saint-Aignan, a dieci minuti da Rouen. Il bello del campus è la presenza di migliaia di studenti e giovani, molti stranieri come me, con cui poter condividere qualcosa. Una cosa che mi sembra positiva è la presenza di decine e decine di studenti provenienti da Marocco, Tunisia, Algeria, Madagascar, Libano, Turchia: l’incontro con loro è stata una piacevole sorpresa. Che la Francia sia più pronta dell’Italia ad accogliere gli stranieri? Il legame di questo Paese con l’Africa è comunque molto forte, nel bene e nel male. Ammiro questi studenti per il coraggio: alcuni di loro non vedono la famiglia che una volta all’anno. Essere a contatto con loro e la loro cultura è sicuramente qualcosa di prezioso per me e, credo, per loro.
Essere in un campus ha anche i suoi lati negativi. Il rischio è di perdere in parte il contatto con la vita della città, frizzante e autentica: la signora anziana che va al mercato il mercoledì mattina e conosce tutti, la folla del sabato pomeriggio in centro, la bellezza dei quartieri più vecchi e delle decine di chiese di Rouen. Non è possibile restare sempre nel campus, vedere solo studenti e servizi per studenti, università e mensa, residenze e aule studio. La città chiama! Cosa dire dei corsi e dell’università? Ho trovato molte novità! Innanzitutto, in classe non siamo mai più di dieci: a Palazzo Nuovo siamo di solito dai 20 ai 150 ed è una bella differenza. Probabilmente se fossi andato a Parigi le aule sarebbero state ugualmente affollate, ma questo ambiente più ristretto e familiare è molto salutare. Mi sembra di essere tornato al liceo, con i professori che fanno domande, chiedono la tua opinione, danno compiti per la settimana successiva, ti chiedono di esporre oralmente un approfondimento. Dopo due anni ad interazione pressoché nulla con i professori, uscire dal guscio e parlare, in francese, non è facile, ma è sicuramente molto più utile che ascoltare per due ore una voce monotona senza dire niente! È questo il tipo di incoraggiamento di cui ho bisogno. I compagni di corso, tra l’altro, sono quasi tutti molto preparati e motivati ed io di conseguenza devo rimboccarmi le maniche. La modalità di valutazione è poi, a mio parere, più completa, perché accosta quasi sempre l’orale e lo scritto, mentre in Italia, per le scienze umane prevale quasi sempre l’orale. Lo scritto permette di sviluppare un metodo, di disciplinare i pensieri: mi accorgo solo ora di aver scritto raramente un testo a carattere filosofico per l’università italiana e mi ritrovo al terzo anno, in Francia, a dover imparare!
Un capitolo a parte va riservato all’organizzazione dell’università e dell’accoglienza nella residenza. Il primo giorno, arrivato alle 17.30 al Campus, ho scoperto che l’accoglienza degli studenti era terminata da mezzora: potete ben immaginare lo spaesamento. Dopo varie peripezie sono finito in un albergo con due ragazzi russi appena arrivati che giravano per il campus senza meta precisa: abbiamo ottenuto la camera il giorno dopo, al pomeriggio, dopo venti firme, due assicurazioni e una burocrazia lunghissima.
La mancanza di chiarezza è una costante, almeno all’inizio, quando vieni sballottato da un ufficio all’altro, tra indicazioni contraddittorie e aule introvabili, forse inesistenti, e orari dei corsi scritti a mano su un foglio in bacheca, ma non su internet. Ho rimpianto la “brillante” organizzazione di Palazzo Nuovo i primi giorni. Ho imparato bene una frase a forza di sentirmela ripetere: Ne t’inquiète pas. Non ti preoccupare, si risolve tutto.       
Come sono gli studenti francesi? Ad un primo approccio forse un po’ diffidenti, non molto accoglienti con un Erasmus, restii a mischiarsi ai nuovi arrivati. In realtà, sto trovando in molti di loro una grande volontà di conoscermi, di aiutarmi magari, di insegnarmi qualcosa della Francia e imparare qualcosa dell’Italia. Dipende soprattutto dal tuo atteggiamento, metterti in gioco, ascoltare, proporre, conoscere: la complicità e le amicizie verranno da sé. E le amicizie non saranno certo come in tempo della Normandia, estremamente variabile. Se ti svegli e piove non ti preoccupare, dopo un’ora uscirà il sole e nel pomeriggio ci sarà la nebbia. La sera, dopo un tramonto spettacolare, una tempesta di vento e pioggia ti darà la buonanotte.”

Cosa vedi, come ti vedi, se immagini di vedere Fabrizio fra 5-10 anni, attraverso una sfera del futuro?
“Difficile dire come mi vedo anche solo dopo l’Erasmus. Tornerò a casa alla solita routine o questa esperienza (ancora tutta da vivere) mi darà la carica che sto cercando? Una cosa mi pare di aver capito: se riesco a fare in Francia certe cose belle e importanti che non avevo mai fatto, perché non farle in Italia? Qual è, se c’è, la vera differenza tra l’Italia e l’estero? Credo che studiare filosofia, bene e con impegno, possa aiutarmi a capire cosa voglio fare veramente. Professore, giornalista, filosofo? Non ho le idee chiare sul lavoro come ho detto, ma tra dieci anni mi vedo comunque circondato da una famiglia, da amici e persone su cui poter contare e che possano darmi aiutarmi a trovare le giuste motivazioni e questa è la cosa più importante”.

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