I giovani: solo bamboccioni, sfigati e choosy?
"Il futuro dei giovani è solo (e soltanto) a tinte fosche? No, io non credo". Foto di Federico Ravassard http://flic.kr/p/dueZwJ
Li hanno definiti #bamboccioni, #sfigati, #choosy. Loro, i giovani. Una categoria sociale la cui appartenenza, negli anni, si è via via più dilatata, diventando sempre più indefinita. Perché, quali sono le cause di questo cambiamento? Non è qui luogo né il momento di fare un’analisi sociologica. Non è questo che ci interessa ma, sicuramente, tra i fattori che dobbiamo considerare ce n’è uno, molto importante, ossia la difficoltà dei giovani ad uscire fuori dal nucleo famigliare così da potersi creare un futuro.
In altre parole, i giovani scontano l’impossibilità di diventare adulti e, dunque, hanno l’”obbligo” di essere giovani ad oltranza. Così, vivono fino a 30-40 anni con mamma e papà, un po’ per scelta obbligata, e un po’ (forse) anche per comodità. Oppure no, ci provano lo stesso. E, per un momento, riescono ad andare fuori da casa e a coltivare il sogno di rendersi #indipendenti, adulti a tutti gli effetti. Salvo poi ritornare sui propri passi e fare ritorno tra le mura domestiche, dopo aver sperimentato che i soldi non bastano e che le bollette della luce o le spese condominiali si abbattono come un macigno su un equilibrio economico già fragile, un mix fatto di precarietà e stipendi bassi. Tanto che molti si abbattono definitivamente e, non solo pensano che il lavoro sia una chimera, ma non lo cercano nemmeno più. Sono i cosiddetti scoraggiati. Ai quali, si affianca poi un’altra categoria: i #NEET, acronimo inglese di Not in Education Employment or Training con cui vengono indicati i giovani che, magari credono nella possibilità di poter avere un impiego ma, nello stesso tempo, non sono impegnati né in un lavoro regolare né in qualsiasi attività di carattere formativo.
Secondo dati del 2011 – forniti dal Ministero del Lavoro in collaborazione con l’Istat – in Italia, coloro che si trovano in questa particolare condizione sono oltre 2 milioni, pari al 21,2% della popolazione. Se sommiamo quest’analisi a cifre più recenti, il quadro è desolante. Secondo i numeri diffusi dall’Istituto Nazionale di Statistica, a fine novembre la disoccupazione giovanile nel nostro Paese è pari all’11,1%, percentuale che raggiunge il 36,5 nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Occorre però riflettere anche su un’altra realtà che sembra smentire la teoria del ministro del Lavoro Elsa #Fornero, la quale definì i giovani come choosy (schizzinosi), cioè poco propensi a svolgere lavori più umili rispetto a quelli per i quali si sono formati. Se ci soffermiamo su un’inchiesta condotta dall’Istituto Data Media per il quotidiano La Repubblica, scopriamo che gli under 30 che si sono affacciati al loro primo impiego nei primi sei mesi del 2012, guadagnano in media 900 euro al mese, pur garantendo la massima disponibilità in termini di giorni e orari, unita a una flessibilità che riguarda anche il tipo mansione, tanto è vero che si parla di un nuovo fenomeno, ossia l’over education in virtù del quale molti laureati svolgono lavori per i quali non è necessario il tanto agognato titolo di studio.
La nostra riflessione è a carattere nazionale, ma non si deve dimenticare che le rivendicazioni dei giovani – e più in generale degli esclusi dal mercato globale – attraversano l’intero pianeta. In questo senso, #Occupy Wall Street può essere un valido esempio.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: il futuro dei giovani è solo (e soltanto) a tinte fosche? No, io non credo. Penso anzi che vi siano le energie e le potenzialità affinché essi ritornino sulla scena da protagonisti ed artefici del cambiamento, in tutti gli ambiti. Le nuove generazioni, d’altronde, sanno già di doversi confrontare all’interno di un mondo globale agguerrito nel quale gli equilibri e gli assetti geopolitici saranno destinati a mutare in brevissimo tempo. Ma in questo quadro intravedono anche un ventaglio di possibilità e di allargamento delle proprie conoscenze derivanti dall’incrocio e dallo scambio di culture ed esperienze. Insomma, i giovani sono già ora molto meno stanziali e molto meno certi e garantiti dei loro padri. È inutile dunque che si spieghi loro perché non potranno svolgere un unico lavoro per tutta la vita, come avveniva in precedenza. Questo fatto, l’hanno interiorizzato da tempo. Rivendicano, però, un diritto: quello di non essere privati del futuro. La precarietà del lavoro, infatti, non può e non deve trasformarsi in impossibilità di costruirsi un proprio autonomo progetto di vita.
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