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Racconto di un’estate africana

Racconto di un'estate africana

Convivialità: Maria pranza con gli amici conosciuti in Kenya Foto di Maria P.

Questa è una storia di viaggio, di studio, di passione. È la storia di una ragazza di ventiquattro anni che ha un sogno, come tanti, e non ha paura di rimboccarsi le maniche per realizzarlo, come pochi.

Maria, fresca laureata in Medicina e Chirurgia all’Università di Torino, le vacanze estive le ha passate in Kenya, a raccogliere materiale per una tesi comparativa sulla peritonite acuta nei pazienti di Torino e Nairobi. Un mese in una città “che sembra una metropoli americana”, ma dove a distanza di pochi metri coesistono ville con piscina e baraccopoli. Baraccopoli di ottanta, cento persone, con una sola tanica d’acqua a disposizione. Baraccopoli in cui il tasso di Hiv raggiunge anche il 60%.

Dei suoi giorni africani Maria parla con un misto di entusiasmo e rassegnazione. “A Nairobi ho potuto raccogliere dati su pochissimi pazienti, appena un quarto di quelli di Torino. I kenioti vanno in ospedale solo quando stanno davvero male perché lì paghi tutto, dalle medicine agli interventi chirurgici, che possono arrivare a costare 700, 800 euro”. E in un posto dove normalmente si vive con un euro al giorno i conti sono presto fatti. Senza sottovalutare il problema della corruzione, che stando alla testimonianza di Maria, è diffusa al punto da spingere gli ospedali ad affiggere cartelli con la dicitura “zona libera da corruzione”. “Non ho potuto evitare di chiedermi” mi confida durante l’intervista “come si possa accettare tutto questo senza reagire”.

La ricerca di materiale per la tesi non è stata, tuttavia, l’unica attività in cui impegnare le proprie energie. Al fianco di Homa Onlus, la fondazione a cui si è appoggiata per organizzare il viaggio e la permanenza in terra africana, Maria è entrata nelle baraccopoli portando avanti progetti di educazione sanitaria e non solo, venendo a contatto con gruppi di giovani per i quali essere nati in una regione sfortunata del mondo non è motivo sufficiente per non impegnarsi a cambiare le cose. Con una squadra di calcio femminile under-20, ad esempio, Maria si è messa ai fornelli: anche solo saper cucinare può volere dire avere un futuro.

Ospitata da due sorelle del luogo, Maria ha incontrato sul suo cammino persone che “ti danno tutto, anche se hanno poco”. Superate le difficoltà legate alla lingua e ai diversi stili di vita, si è “disintossicata”, imparando a godersi ogni momento, sperimentando i benefici della calma e della pazienza. Sorride ricordando come camminando per la strada si sentisse chiamare “Mzungu”, “Ehi, bianco!” e mi spiega quanto “una persona dalla pelle bianca rappresenti per loro una speranza, il segno che qualcosa cambierà”. Perché accanto a una ristretta fascia di kenioti benestanti, imbevuti di ideali obamiani, e a un’estesa popolazione di poveri e analfabeti, ci sono decine di giovani, nostri coetanei, che si impegnano per creare qualcosa, come lezioni di informatica e di matematica. A piccoli passi, per essere protagonisti del proprio futuro.

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